A volte di notte
Il pensiero di te
Con zampe di gatto
mi salta sul letto.
A volte si spinge
fino in gola sull’orlo
su quel nodo caldo,
A volte leggero
Si ferma sulla bocca
Dello stomaco, trema.
Poi parte soddisfatto.
Ne seguo le tracce
Tra pieghe di gambe e lenzuola irrequiete.
Non si fa mai pregare.
È quanto di più lontano potevo pensare
Dalla mano di Dio
Dall’elemosinare
Lo chiamo e svanisce
Lo ignoro e ritorna
Quando mi capita
– spesso, in realtà –
Di confondermi
Nelle mezze parole
Di carta e bambagia
Di cui mi rivesto
Per gli occhi del mondo
Mi lascia a brandelli
In meno di un “ciao”
E io resto nuda
segnata
Sola
Fino alla prossima luce.
Quando ricordo
– invece –
Di fare silenzio
e sveglio la fragile
pellegrina di fuoco
Che ama sostare
Nella mia carne
E bearsene,
Quando tutto quel che serve
per orientarmi nei golfi del sangue
Non è che la lenta pulsante
risacca del tempo,
Il pensiero di te
– se vuole –
può fermarsi a riposare
Tra le mie gambe.
Lontano di poco
Dal centro di tutto
Fino a che una finestra
Aperta sulla notte
Non lo richiami
Ad altri, più urgenti
Affari lunari
Dei giorni in cui eravamo tutti fermi, quando il mondo di fuori sognava di richiudersi in tanti piccoli involucri a misura di appartamento e stare al sicuro dalle statistiche e dall’aria, mi rimane qualche verso sparso, piccole rivendicazioni di libertà interiore contro una costante ansia sotterranea, crescente a intervalli regolari che scandivano le giornate come il TG. La tenevo a bada con il silenzio, ma si scatenava come il Kraken non appena qualcuno accendeva uno schermo.
In quei giorni in cui non sembrava succedere niente, fatta eccezione per quella lenta, pacifica rivendicazione della natura selvatica sulle città abbandonate, come nella favola della bella addormentata. Ma mentre gli ospedali esplodevano e si allungavano le code a caccia di lievito, di carta igienica e tutto sapeva di Apocalisse imminente, il mondo era tutt’altro che fermo, fermentava, ribolliva, si preparava a esplodere. Erano le mie piccole fragilità che non intendevano accorgersene e allora piuttosto preferivano tenerlo fuori, non potevano sopportarne la consapevolezza, ancora.
Incapace di proseguire su un tracciato che non aveva più alcun senso di esistere, bloccata in un eterno, invariato, sabato che culminava in un tranquillo venerdì sera ai fornelli per poi traghettarmi avanti di un altro giorno tra parentesi, le parole hanno trovato spazio solamente in qualche verso sparso, pezzi di haiku appuntati sull’agenda stranamente vuota, buttate su Instagram invece che fatte crescere su carta, le iniziavo e le dimenticavo come si fa col decimo libro aperto per stordimento, quando ancora nove ti aspettano abbandonati negli angoli della casa.
Di quei giorni salvo invece poche, rarissime sensazioni. Benedette sensazioni concrete anti-dispersione tra tutto il rumore bianco che usciva dal mio cervello appiattito dal panico:
Ho fatto attenzione a spingere la parte interna dell’ombelico verso la schiena mentre sudavo su un tappetino e seguivo le indicazioni che arrivavano via Skype, quando fino alla settimana prima ignoravo perfino di averla una parte interna del mio ombelico.
Ho pulito sistematicamente tutti i mobili del garage, immersa fino ai gomiti nell’acqua e disinfettante, e scaffale dopo scaffale ho sentito di stare lavando via anche la nebbia tra le mie tempie. Dal nulla bianco e terrorizzato è affiorata così una nuova possibile idea di trama e sviluppi di un testo. Ho ricordato come fosse sentire il pizzicorino particolare di un’urgenza e rigirarlo tra le dita del pensiero per scriverlo, mi è tornata la memoria di come si faceva a intrecciare parole, emozioni, visioni e logica in un nuovo mondo fatto dal palco e dal pubblico: i ricordi venivano da un tempo lontanissimo, quando ancora aveva senso farlo, eppure erano di nuovo lì ma tutto d’accapo, come se li avessi inventati da zero, o ricostruiti tirando a indovinare da antichi resti sopravvissuti nelle sabbie di qualche deserto.
Ho studiato con la lentezza del seme la bellezza del dialogo verde e arcano che mia madre perpetua a istinto con il mondo vegetale. Ora so che si tratta di una lingua fatta di generosità e ascolto costante, basata sulla comune capacità di sopravvivenza interiore ed esteriore alle tempeste. Gli umani, ne sono certa, l’hanno sicuramente imparata dai vegetali.
Paradossalmente, questo tempo sospeso causa pandemia, ora so che lo potrò ricordare come una necessaria camera di decontaminazione:
Mentre il mio guscio fatto di logica e sistemi si affannava a tenere fuori dal balcone tutto il dolore, la paura e lo spaesamento di un mondo che davanti a un cambiamento radicale e necessario non sarà mai abbastanza pronto, il mio nucleo sregolato timidamente respirava in quell’eterno straniante presente, rimestava solitudini e sinestesie, e si preparavo ad aprirmi alle incredibili persone ed esperienze che da lì a poco i miei nuovi bisogni avrebbero attirato.
Mi preparava a cambiarmi, da dentro. Ancora una volta. Stavolta per davvero.
Ora più che mai questi bisogni vanno raccontati, portati nel mondo, a picchiettare sui gusci mai schiusi di tutti quelli che ben prima del Covid si mantenevano ben a distanza dall’essere umani.
In tutto quel tempo, a tenermi ostinatamente aperto un varco verso il fuori, verso l’Altro, è intervenuta tanta bellezza, persone straordinarie e illuminati esperimenti del mondo che sarà.
Ma gli unici interventi capaci di fare breccia davvero nella paura, e che riuscivano a ricordarmi che un mondo c’è sempre, fuori dalla porta, una scelta c’è, ed è già stata fatta, che l’amore è spiazzante, e crea il mondo e lo tiene insieme proprio così com’è in ogni secondo senza nemmeno pensarci, perciò cosa mai si dovrebbe temere davvero se non di non riuscire fino in fondo a raccoglierlo, a capirlo, a raccontarlo come si può… sono state queste visite lunari che mi visitavano alla soglia del sonno.